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Una moltitudine di uomini di mare converge da ogni parte del globo acqueo verso una baia, una lingua sottile di sabbia in mezzo al nulla salino. Alcuni vengono da lontanissimo, tutti per un motivo irresistibile, ma insondabile, richiamati forse da una malďa arcana. Così, sospesi nell’oceano, immobili, le barche legate le une alle altre, incapaci di parlare, di definirsi, forse addirittura di sentirsi, eppure unanimi, quieti nonostante l’allerta, pervasi da una sorta d’armonia… aspettano. Si resta così, come quei marinai, di fronte alle opere di Maria Cristina Ballestracci, mai incerti, mai disincantati, eppure indefinibilmente assorti, saturi nonostante l’anima relitta cui lei ridona vita. E’ la metamorfosi delle forme, dei materiali, cui sottraendo molto Maria Cristina ridona energia. Metamorfosi di uomini e donne di mare, terrestri di provenienza, acquatici di destinazione, né vivi né morti, come diceva Platone dei naviganti, bensì uomini di mare.La spiaggia di Lisianski è stata per me un’apparizione. Io devo esserci stato, chissą quando, e credo che ci tornerò.Sarò uno dei più prossimi all’imboccatura della baia, uno di quelli che gocciola ancora sulla pelle lucida, immobile, mentre il miracolo inconcepito e atteso si ripete.
Simone Perotti
LISIANSKI
inedito di Simone Perotti
A dirla veramente tutta, quel che ci è mancato è stato forse il coraggio. Potrei osservare che ci fosse qualcosa di strano nell’aria, ma non voglio. In fondo sapevamo bene dove trovarle. Ci eravamo organizzati bene per raggiungere il posto, siamo professionisti della pesca e delle emozioni, abbiamo letto romanzi d’avventura e viaggiamo da anni per flussi d’esistenza. Non abbiamo limiti. E’ per questo che, pensavo, una volta arrivati all’imboccatura della spiaggia di Lisianski sarebbe iniziato il divertimento. E invece non è andata così. Qualcuno piangeva persino, seduto a cavalcioni sul bastingaggio, con la barca alla fonda. Altri due si erano buttati in acqua e a nuoto avevano raggiunto uno sperone di roccia solitario, a qualche decina di metri dalla terraferma, dove stavano ritti in piedi, gocciolanti nel sole coricato della primasera, umidi e attenti come fosse un rallentì. Noi ci siamo guardati in faccia: eravamo già tutti diversi, le ombre ci torcevano i lineamenti e gli ultimi riflessi del sole ci rendevano caldi, malinconici, persino un po’ morbidi sulle gambe. Io ho scattato una fotografia, ma controluce non è venuto che un duplice abisso contrapposto. June mi ha toccato un braccio, e ho sentito il suo grido di donna fermarglisi in gola. Sulle prime, a dire il vero, non ci abbiamo badato neppure. Quell’attesa rapiva la nostra attenzione. Il fatto è che, con tutto quel mondo dentro e quel carico di vino in cambusa, non la vedevamo mica con chiarezza la realtà. Anche lì, come per ogni cosa che avevamo saputo osservare, c’eravamo più noi che il mondo, più la sigla del Big Boy Show che il ritornello del mare. Così, persi nell’angoscia del nostro rumore, non ci siamo neppure stupiti di quella gran folla galleggiante. Non uno che abbia detto “Ragazzi, ma che ci prende? Perché non entriamo in rada? Che sta succedendo?”. Molto tempo dopo ho pensato perfino che avessimo bevuto, che quelle due bottiglie vuote sul ponte e quei bicchierini giù al porto, prima di salpare, ci avessero un po’ annebbiato le idee.Io, allora, avevo anche un po’ perso la testa per June, che ora, invece, neppure ricordo. Fatto sta che ci siamo fermati lì, sull’acqua lievemente ondulata del tratto di mare antistante la spiaggia di Lisianski. Abbiamo manovrato lenti, nella brezza, governato le vele umide, invece che dare àncora nella sabbia bassa ci siamo legati, sempre in silenzio, a un mistico dei primi del secolo. Eravamo tanti, una flotta intera: c’erano piroghe con giovani di Manila e strana gente di Jakarta che ascoltava musica batik; c’erano due ketch olandesi appaiati colmi di alti marinai e giovani donne biondissime; c’era il capitano della pubblicità, con tutti i suoi prodotti sul ponte; c’era Marlowe, c’era Jean-Pierre, c’era Stefano con i suoi gatti; c’erano chiatte da porto e clipper da regata, c’erano due bretoni con un dinghy che si sono baciati per tutto il tempo; c’era anche una vecchia zia di June, che però lei non voleva vedere. Più avanti di tutti, come se fosse arrivato per primo, c’era un vecchio argentino che non la finiva più di mormorare, come se sapesse già cosa stava per accadere. Verso lo scoglio dove i due gocciolavano in piedi, c’era anche un prao pieno di immigrati, che a ripensarci avevano capito proprio tutto, e che spero proprio ce l’abbiano fatta. Per il resto c’era gente di mare, gente che si vedeva che non era arrivata lì per caso, popolazioni del fluido blu che aveva dovuto saper scorrere, senza forzare, su quel vecchio mare schiumoso che era scomparso progressivamente alle spalle di tutti, nell’oscurità incalzante. Quelli che erano venuti da oltre l’Oceano, parevano spaesati nel nostro grande mitologico mare. Ma tempo per accorgerci di tutto questo non ne abbiamo avuto neppure troppo. Le immagini, i volti scavati dal sole, li abbiamo ricordati solo molti anni dopo. Erano forse le otto e mezza quando la palla rossa si è tuffata dietro l’ultimo volo di gabbiano, e nel mare di fronte alla spiaggia di Lisianski non ci siamo quasi più visti l’un l’altro. Le ultime rade voci si sono estinte come gocce esaurite di una fonte antica. Un silenzio gravido di spaesamento. Le luci in testa d’albero erano tutte spente. L’immobilità dell’aria faceva un po’ sudare, ma consentiva di cogliere il lieve sciabordìo delle chiglie e quello lontano della spiaggia nell’insenatura che ne custodiva il segreto. A quel punto, voi dite, avremmo dovuto accorgerci di qualcosa. Lo capisco, non è sbagliato pensarlo. Ma dovevate esserci, aver navigato a lungo come noi, aver fatto scalo in così tanti porti, lungo la rotta, dove non ci era riuscito di perderci. C’era ancora così tanto rumore nelle nostre teste, così tanto fluido corto, così tanta efficienza, che di fronte a quell’attimo di attesa ci siamo trovati impreparati. Era così bello starsene lì tutti acquattati, ormeggiati gli uni gli altri con le cime, barca a barca, come a non volersi rassegnare al canto della terraferma. Eravamo tanti, diversi, finalmente accanto. Era tutto così simile alla nostra vera natura, che nessuno si riconosceva… Senza preavviso, dopo qualche ora di notte, sono sbucate a una a una, prima esitanti e poi rapidissime, e sono sfilate via nel fruscìo di una fiaccola nel vento. Non saprei definirle neppure dopo averci pensato per tutta la vita. Erano fiammelle, forse, piccole innumerevoli fiammelle azzurro-arancio a forma di vela, doppie per il riverbero tremulo sulla superficie dell’acqua, e sono spuntate dal nero della spiaggia immersa nel buio, hanno esitato come per osservarci, perché sono sicuro che si aspettavano di trovarci, e poi sono scomparse divaricando se stesse dal proprio riflesso. Siamo restati all’ancora per molti mesi. Nessuno di noi è mai entrato nella spiaggia di Lisianski.